Milano, novembre, è tempo di BookCity. E se per la città gli eventi non sono ancora iniziati (qui il sito ufficiale con il programma), nelle scuole hanno già preso il via gli incontri con gli autori. In questi giorni ho avuto la gioia di conoscere tre classi quinte nelle scuole di via Pareto e via Magreglio (ora ospitata in via Sapri). È la mia amata e conosciuta zona 8, si arriva con un tram verde e si scende vicino a quel capolavoro misconosciuto che è la Certosa di Garegnano.
Belle facce, bei sorrisi, tantissima curiosità e molta voglia di giocare con le parole. E tanti, tanti haiku. Come sempre. Più o meno riusciti, più o meno corretti metricamente, più o meno legati all’esperienza personale. Come sempre. E come sempre, all’improvviso, appaiono attimi di bellezza cristallina che mi faranno ricordare questi incontri. Perché le scuole apparentemente sembrano tutte simili, eppure ciascuna ha dettagli distintivi e preziosi.
Per esempio lei, bambina specialissima. Che si sintonizza immediatamente con grande sensibilità.
Oppure questa faccenda del multilinguismo. Nasce come un gioco e dalla proposta di un bambino la voglia di scrivere haiku in lingue diverse dall’italiano. C’è quasi tutto il mondo e persino il dialetto. Anche questo mi era già accaduto in passato, ma mai con la spensieratezza a cui ho assistito. Perché qui i ragazzi non si sono limitati a scrivere nella lingua madre, portatrice di nostalgia ed echi di tradizione come questa fotografia scattata in cirillico. Una canzone? Un motivo decorativo?
La lingua madre è ossigeno, radice, ma il mondo di questi bambini è grande, tanto più grande del nostro, è aperto e accessibile, dunque l’apprendimento si ridisegna su rotte che le nuove generazioni tracciano in totale autonomia. E valli ad inquadrare e valutare certi talenti! Perché non scrivere uno haiku in inglese? E perché non provarne uno in coreano? Coreano? Ma io credevo avessi origini peruviane. Sì, ma ascolto i BTS.
Belle le facce delle maestre che si interrogano sull’attualità degli approcci didattici in questa realtà sfuggente, allargata fino a sfilacciarsi, multilingue e globalizzata. Quali contenuti proporre? Quali linguaggi? Risposte immediate forse non ce ne sono, ma vedo tanta intelligenza e tanta empatia in queste domande.
In ogni caso non è tempo di disorientarci: i bambini ci fanno viaggiare, i bambini ci riportano a casa. Quale casa, parlando di haiku? Se non riusciamo ad arrivare fino al Giappone, planiamo comunque verso Oriente.
Un bambino è appena arrivato dalla Cina. Ha undici anni, non parla italiano. Una compagna gli traduce il senso generale del laboratorio, omettendo la complicazione della suddivisione sillabica in 5/7/5. E lui si tuffa nella scrittura. Un lungo testo fitto fitto, vediamo l’impegno, il suo viso rilassato alla fine. È un lavoro portato a termine con piacere, possiamo però goderne solo la bellezza estetica.
La gentilissima Silvia Torchio in giornata si offre di tradurre il testo all’impronta. Eccolo, l’Oriente:
“In primavera sbocciano i fiori di pesco e ovunque se ne sente il profumo. Le apj volano nell’aria di qua e di la. Alle otto del mattino, lungo la strada per andare a scuola, di tanto in tanto si vedono le api che succhiano il nettare.
Di pomeriggio, finita la scuola, le operose api vengono con noi, ci accompagnano ronzando lungo la strada.
Di sera, quando è ora di dormire, tutte le creature si addormentano con noi, aspettando che arrivi un nuovo giorno”.
Eccolo, il mistero di tutte le cose.
Non voglio sporcare di malapolitica questo post, aggiungo solo che secondo me questa serie di immagini vitali parla forte e chiaro di futuro ma dice anche di un presente poco raccontato, di progetti culturali che funzionano, del lavoro quotidiano degli insegnanti e delle famiglie.
E dice anche un poco di me, del mio lavoro e del mio approccio alla parola poetica.
Riprendo il tram verde, percorso inverso, e incontro lui. Si è costruito un libro a fisarmonica e continuerà a scrivere haiku.
Ora so che ho qualche mistero da raccontare venerdì prossimo a Parma.